Il fenomeno migratorio (parte seconda)

Nella prima parte dell’approfondimento abbiamo preso in considerazione diverse ricerche che ci permettono di valutare l’entità del fenomeno migratorio. Contrariamente alla percezione comune, i dati dimostrano che solo una piccola parte dei migranti e dei rifugiati sono diretti in Europa. In particolare, l’Italia ne accoglie meno di moltissimi altri Paesi del Vecchio Continente. Nel complesso, la percentuale dei migranti sulla popolazione italiana ed europea è veramente minima.

Si sono approfondite le reali cause che spingono le persone a partire, a cominciare dalla situazione di instabilità socio-economica, ai violenti conflitti e le limitazioni delle libertà individuali e collettive presenti nei Paesi africani, i cui migranti rappresentano la percentuale più elevata tra coloro che arrivano sulle coste italiane. Si è dimostrato come la proposta di aiuti internazionali si limiti ad essere uno spot elettorale, mentre in politica estera si operi in direzione opposta rispetto a ciò che si proclama.

Si è verificato che solo una piccola parte dei migranti professa la religione islamica (la maggioranza è cristiana) e che quindi, anche se nell’incontro tra culture non si vedesse un’opportunità di arricchimento reciproco, i ‘valori occidentali’ non sono a rischio. Abbiamo osservato che, in realtà, i migranti delinquono percentualmente meno degli italiani e che, addirittura, gli italiani all’estero sono di più dei rifugiati presenti sul suolo nazionale.

Insomma, si è potuto concludere che non c’è alcuna invasione.

Proseguiamo adesso ponendoci un altro quesito che può far comprendere meglio la situazione reale e quanto la disinformazione, spesso, la faccia da padrona.

Quanto ci costa?

Gli stranieri contribuiscono al PIL italiano con il loro lavoro per l’11%, mentre per loro lo Stato stanzia meno del 3% dell’intera spesa sociale. Uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico mostra che tra il 2007 ed il 2009 in quasi tutti i Paesi europei le famiglie immigrate hanno versato più tasse e contributi di quanto abbiano ricevuto in servizi e sussidi. Ciò è dovuto prevalentemente a questioni demografiche: la maggioranza dei migranti è in età lavorativa e non grava molto sulle casse dello Stato che le ospita, ad esempio sul sistema sanitario e su quello pensionistico.

L’età media dei lavoratori stranieri è di 31 anni, mentre quella degli italiani è di 44 anni. Solo nel 2025 gli stranieri pensionati saranno 1 ogni 25, mentre già oggi gli italiani pensionati sono 1 su 3. Praticamente i sussidi versati dagli immigrati (che ammontano a circa 9 miliardi) pagano le pensioni degli italiani. La presenza straniera contribuisce alle pensioni per invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS) con un gettito che nel 2015 è stato di 10,9 miliardi, mentre i cittadini non comunitari titolari di contributi IVS gravano solo per lo 0,3% sul totale delle pensioni. Nonostante l’aumento fisiologico annuale dei nuovi beneficiari, le proiezioni dimostrano che il differenziale rispetto agli italiani resterà elevato ancora per parecchi anni a beneficio delle casse previdenziali.

Sfatiamo un altro luogo comune: i migranti non ci rubano il lavoro. Lo dimostrano ben 27 ricerche pubblicate tra il 1982 ed il 2013; non vi è alcun impatto sui salari degli italiani.

La maggioranza di queste 27 indagini scientifiche che analizzano gli effetti dell’immigrazione sugli stipendi degli autoctoni assegna all’aumento del numero dei migranti un’incidenza media che oscilla tra lo -0,1 e l’1: un impatto, cioè, prossimo allo zero. Secondo gli studiosi, gli effetti non sono negativi perché ciascun lavoratore aggiusta la propria offerta alla situazione. Nel mondo lavorativo è sbagliato pensare che si gareggi per un numero finito di posti e che quindi l’arrivo di nuova forza lavoro sottragga opportunità. Le dinamiche sono molto più complesse perché la società non è uno statico monolite ma è in continua evoluzione e tramite la specializzazione settoriale, dettata dalle inclinazioni e dalle capacità, spesso si riescono a compensare carenze ed aprire nuovi spazi. Senza contare che l’incontro tra realtà diverse può portare a nuove idee e alla creazione di posti di lavoro che altrimenti non sarebbero esistiti.

Nei Paesi europei le analisi statistiche riportate dall’Istituto Universitario Europeo mostrano che l’immigrazione e la disoccupazione non vanno di pari passo, ma addirittura si muovono in direzione opposta. I ricercatori spiegano che “un mercato del lavoro che funziona bene crea occupazione sia per i migranti, sia per gli autoctoni che, in molti casi, non sono in competizione diretta”. La Banca d’Italia scrive: “la crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani”; questo perché ha colmato un vuoto provocato da fattori demografici.

Ad ulteriore conferma di quanto si è detto, l’Istat mostra come gli immigrati tendano a lavorare in aree differenti da quelle degli italiani. Ad oggi, solo il 6,8% degli immigrati svolge professioni qualificate, mentre il 35,9% è impiegato in lavori non qualificati ed il 30% lavora come operaio. I dati evidenziano quanta strada si debba ancora fare per l’inclusione, l’abbattimento delle barriere all’ingresso e ogni forma latente di discriminazione. A sostegno di ciò, le rilevazioni sulla retribuzione netta mensile, che è decisamente inferiore rispetto a quella degli italiani con uno scarto del 28,1% che si allarga ulteriormente tra le lavoratrici.

Bisognerebbe dedicare un capitolo a parte al Mezzogiorno, dove la guerra tra poveri, le minori opportunità, un salario medio più basso, la scarsa regolamentazione in alcuni settori e la piaga del lavoro nero rendono la situazione complessiva più difficile. Problematiche che non hanno certo origine nelle recenti ondate migratorie, ma affondano le loro radici nella storia del nostro Paese, nel Sud come territorio di conquista nel quale le risorse vengono sfruttate ma i benefici vi rimangono in minima parte, nella mancanza di politiche serie per il Mezzogiorno da parte del governo centrale.

Dal punto di vista fiscale, secondo le stime di uno studio della Fondazione Moressa, in Italia, come nel resto d’Europa, i lavoratori stranieri pagano più tasse rispetto a ciò che ricevono come prestazioni.

Nel 2016, anche se i cittadini non comunitari sono diventati perlopiù lungo-soggiornanti (62,5) senza essere più costretti a lasciare l’Italia in caso di perdita del posto di lavoro, non ci si trova davanti ad una massa di assistiti. Questo perché è maggiore il loro apporto al sistema fiscale italiano, rispetto alla spesa pubblica sostenuta a loro favore: il bilancio è di 2,2 miliardi di euro in favore delle casse dello Stato.

I dati sono sempre della Fondazione Moressa che, confrontando la spesa pubblica impiegata per gli immigrati (14,7 miliardi) e gli introiti da loro assicurati all’erario (16,9 miliardi), fa emergere come per l’Italia vi sia un utile complessivo di 2,2 miliardi di euro.

Concentriamoci ora sui costi dell’accoglienza, ambito in cui la disinformazione probabilmente dà il proprio meglio.

L’accoglienza dei rifugiati dovrebbe svolgersi all’interno del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), gestito dal Servizio Centrale/ANCI con fondi del Ministero dell’Interno. Gli enti locali, titolari del progetto, ricevono la copertura finanziaria dal Ministero e assicurano il rispetto di determinati standard di accoglienza. Il sistema SPRAR è finanziato dal Ministero per il 95%, che attinge le risorse dal Fondo Nazionale per le Politiche ed i Servizi dell’asilo, devolvendo agli enti locali, non ai rifugiati, delle somme basate sulla stima di circa 35 euro al giorno, necessari per la gestione del servizio di accoglienza di un migrante adulto.

I posti per l’accoglienza ordinaria nel sistema SPRAR sono pochi rispetto alle esigenze reali. Sempre più spesso il Ministero chiede ai Comuni di individuare nuove soluzioni per decine di richiedenti asilo, scatenando le proteste degli amministratori locali.

Quando i posti SPRAR sono insufficienti, come è accaduto sistematicamente negli ultimi anni, entrano in gioco i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) per i quali sono valutate tutte le offerte di posti letto, anche quelle provenienti da cooperative, albergatori o altri soggetti privati. Poiché l’accoglienza non può costare più di 35 euro al giorno per persona, si intuisce che le sistemazioni non saranno in hotel a 5 stelle. Si potrà trattare di alberghi dignitosi, non certo lussuosi.

Nei bandi indetti per reperire posti CAS, le prefetture offrono la cifra massima di 35 euro per persona al giorno, riservandosi di aggiudicare i bandi col criterio del massimo ribasso. Ai richiedenti protezione internazionale spetta solo il pocket money, cioè massimo 2,50 euro al giorno a persona fino ad un massimo di 7,50 euro a nucleo familiare, ed una singola ricarica telefonica di 15 euro all’arrivo.

Su 146,6 milioni di euro spesi nel 2014 per l’accoglienza, la frazione più elevata (quasi il 40%) è destinata ai costi del personale, cioè al pagamento degli stipendi dei lavoratori che operano nell’ambito della protezione e dell’accoglienza.

I migranti affrontano viaggi lunghi e pericolosi: attraversano mari e deserti in condizioni umanamente inaccettabili, a volte per raggiungere qualcuno che li aspetta o, altre volte lasciando dietro di sé parenti, nella speranza di riuscire a provvedere al loro sostentamento economico una volta giunti in Europa. Il cellulare è perciò indispensabile per comunicare con la propria famiglia; grazie a questo, i migranti hanno la possibilità di scambiare informazioni ‘di servizio’ sulle rotte ed i rischi che incontreranno nel percorrerle.

La tecnologia e l’utilizzo dei social network sono di vitale importanza nei viaggi dei migranti, come sottolinea uno studio condotto da Open University che sottolinea come la mancanza di informazioni li spinga ad affidarsi a soluzioni illegali e pericolose. Senza dimenticare che solo grazie alle immagini catturate di nascosto, siamo al corrente delle torture a cui i migranti sono sottoposti sia mentre attendono di imbarcarsi e sia una volta stipati nelle stive alla pari di merce, come se la vita non avesse alcun valore.

È per questi motivi che il cellulare è uno dei primi beni che una persona si porta dietro. Al loro ingresso in una struttura di accoglienza, chi arriva riceve solamente una ricarica telefonica (magari per comunicare ai propri cari che è ancora vivo).

Il rapporto pubblicato da SPRAR e Cittalia racconta le storie di rifugiati che hanno sfruttato le proprie conoscenze per avviare nuove attività commerciali, dalla ristorazione alla sartoria. In molti casi i profughi hanno anche contribuito a valorizzare il territorio ed i suoi prodotti tipici, organizzando start-up agricole e collaborando con cooperative locali. In altri casi ancora, i rifugiati hanno tenuto corsi di lingua gratuiti per italiani.

Nell’ambito del progetto ‘Sulle vene della Puglia’, i rifugiati hanno collaborato con alcune cooperative locali e con il comune di Martina Franca per la promozione turistica nella zona della Valle d’Itria, contribuendo a mappare il territorio per percorsi ciclabili lungo l’Acquedotto Pugliese ed a tradurre in diverse lingue le audio guide.

Per quanto riguarda l’assegnazione di case popolari, ovviamente, tra i criteri non compare la nazionalità. I parametri di cui si tiene conto sono il reddito, il numero dei componenti della famiglia, se superiore a cinque, l’età ed eventuali disabilità. I migranti, contrariamente a quanto ci viene raccontato, di solito sono svantaggiati perché giovani, in buona salute e con piccoli nuclei familiari poiché non ricongiunti. I dati dimostrano che solo una minima parte delle abitazioni messe a disposizione vengono assegnate a cittadini stranieri.

Infine, una ricerca dell’Istituto Universitario Europeo mostra come un’Europa senza migranti andrebbe verso un drammatico calo demografico, con conseguente insostenibilità del welfare.

Da anni la popolazione italiana è in diminuzione: si stima che tra il 2011 ed il 2065 “la dinamica naturale in Italia sarà negativa per 11,5 milioni e quella migratoria sarà positiva per 12 milioni”. La prevalenza dei decessi sulle nascite ed il conseguente bilancio naturale negativo troveranno soltanto “un parziale temperamento nei flussi degli immigrati”.

Secondo le ultime stime della Commissione Europea, nel 2015 in Europa c’erano quattro giovani per ogni pensionato, mentre nel 2060 ce ne saranno solo due. Gli autori della ricerca dell’Istituto Universitario Europeo scrivono “o gli stati europei chiudono le frontiere e accettano di vedere l’Europa pesare sempre meno in un mondo in crescita o si aprono alla migrazione e permettono all’Europa di crescere”.

Insomma, non solo il fenomeno migratorio non grava sulle casse dello Stato avendo un saldo positivo, ma è necessario per garantire la sostenibilità del nostro welfare.

Luca Ruggiero – ARCI Brindisi

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